Certificazione della parità di genere negli appalti pubblici, una innovativa pronuncia sul requisito “sostanziale”

Con sentenza n. 257 del 4 novembre 2024 il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa (TRGA) di Bolzano ha statuito che la Certificazione della parità di genere[1] (di seguito anche solo “la Certificazione”) attiene ad una condizione soggettiva intrinseca dell’azienda che, in quanto tale, non può costituire oggetto di un contratto di avvalimento premiale perché non è assimilabile ad una risorsa da mettere a disposizione di terzi e da impiegare nell’esecuzione di un lavoro o di un servizio.

La Certificazione è stata introdotta dal legislatore nazionale con la Legge n. 162 del 5 novembre 2021. Tale norma ha inserito nel Codice per le Pari Opportunità (D. Lgs. n. 198/2006), l’art. 46 – bis, con cui si prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2022 le imprese possano dotarsi della Certificazione che attesti le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere all’interno dell’azienda.

La Certificazione è stata inserita nel Codice degli Appalti e consente ai concorrenti, che abbiano conseguito la Certificazione, l’ottenimento di un miglior posizionamento in graduatoria nelle gare volte all’acquisizione di servizi e forniture.

Nel caso di specie il TRGA Bolzano si è pronunciato sul ricorso promosso da una società, seconda classificata in una gara d’appalto, avverso il provvedimento della Stazione Appaltante, con cui quest’ultima ha disposto l’aggiudicazione dell’appalto ad un Raggruppamento Temporaneo di Imprese (l“RTI”) costituito da due società: la mandante e la mandataria.

La società ricorrente ha impugnato il provvedimento di aggiudicazione, chiedendone l’annullamento, censurando che la Stazione Appaltante avesse assegnato al RTI un punteggio premiale per il possesso della Certificazione della parità di genere nonostante solo la Società mandataria (e non anche la mandante) ne fosse in possesso.

Difatti, poiché la società mandante era priva della Certificazione, la stessa aveva stipulato con la mandataria del RTI un contratto di avvalimento.

Tuttavia, secondo la ricorrente, la Certificazione non poteva costituire oggetto di avvalimento premiale per i seguenti motivi:

  1. la lex specialis di gara non consentiva di ricorrere all’avvalimento, nei casi in cui il concorrente fosse un RTI, per sopperire alla mancanza della predetta certificazione di uno dei membri del Raggruppamento Temporaneo di Imprese. Il Disciplinare di gara con riferimento alla Certificazione della parità di genere precisava espressamente che “[i]n caso di RTI, consorzi, GEIE e reti d’impresa la certificazione deve essere presentata da tutti”;
  2. il punteggio premiale è previsto a riconoscimento di una condizione soggettiva del concorrente che deve già sussistere al momento della gara. L’art. 108, comma 7, del d.lgs. 36/2023 prevede che l’attribuzione del punteggio premiale alle imprese, che abbiano adottato politiche tese al raggiungimento della parità di genere, persegue lo scopo di sollecitare le imprese ad adottare politiche organizzative e produttive orientate al raggiungimento di obiettivi primari e superindividuali e, quindi, a premiare la condizione soggettiva di quel concorrente che ha già posto in atto le misure concrete e conseguito la parità di genere (o è in procinto di conseguirla).

Il contratto di avvalimento concluso tra le due società non sarebbe quindi idoneo a trasferire il requisito in capo all’impresa ausiliata.

Il Giudice Amministrativo ha accolto il ricorso della società seconda classificata in graduatoria e, per l’effetto, ha annullato il provvedimento di aggiudicazione della gara (contestualmente a tutti gli atti impugnati).

Il TRGA ha spiegato che il legislatore ha previsto la possibilità di attribuire un punteggio premiale a determinate imprese che hanno implementato importanti misure a favore della parità di genere all’interno dei contesti aziendali in cui operano e si tratta di una qualità intrinseca alla loro organizzazione aziendale che, in quanto tale, deve essere certificata da un apposito organismo accreditato.

Da ciò, secondo il TRGA, ne consegue che: “tale qualità non può essere oggetto di trasferimento a mezzo di un contratto di avvalimento che prevede attività di consulenza, messa a disposizione di standard operativi e procedure di intervento o anche supporto tecnico-organizzativo o quant’altro all’impresa ausiliata. Infatti un simile contratto di avvalimento è in ogni caso inidoneo a garantire che le procedure adottate siano effettivamente funzionali ed efficaci al raggiungimento della parità di genere nell’organizzazione aziendale dell’impresa ausiliata, anche perché una simile valutazione è riservata unicamente agli organismi di certificazione accreditati”.

Si tratta di una pronuncia sulla certificazione della parità di genere, nell’ambito degli appalti pubblici, particolarmente innovativa.

Il Giudice Amministrativo, con la pronuncia in commento, ha rimarcato l’importanza della certificazione della parità di genere quale strumento in grado incentivare le imprese ad adottare misure adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree e a promuovere una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro come previsto anche dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (“PNRR”).

Il PNRR (Missione 5, Investimento 1.3) prevede proprio l’attivazione di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere, con l’obiettivo di incentivare le imprese ad adottare policy adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree che presentano maggiori criticità.

Emerge ancora una volta l’importanza della Certificazione nell’ambito degli appalti pubblici che costituisce un meccanismo di premialità per le imprese che si sono certificate e possono quindi ottenere un punteggio più elevato e, di conseguenza, un miglior posizionamento in graduatoria.

Con tale pronuncia viene confermato il carattere sostanziale e non meramente formale del requisito della Certificazione, che è il risultato di un percorso interno dell’azienda e non può essere oggetto di scambio o di avvalimento in ambito della contrattazione pubblica.

 

[1] Per un approfondimento cfr. amplius il seguente articolo a cura di Carlotta Carta e Beatrice Gallucci: “La certificazione della parità di genere: evoluzione normativa e nuovo codice dei contratti pubblici”: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/la-certificazione-parita-genere-evoluzione-normativa-e-nuovo-codice-contratti-pubblici.

L’abrogazione dell’art. 8, comma 2-quater, della legge n. 287/1990 da parte del c.d. Decreto Omnibus

Con l’articolo 10, comma 2, del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113, recante “Misure urgenti di carattere fiscale, proroghe di termini normativi ed interventi di carattere economico”, (cd. Decreto Omnibus), il legislatore ha disposto l’abrogazione del comma 2-quater dell’art. 8 della legge n. 287/1990 (“l’art. 8 comma 2 – quater”).

Questa norma, presente nel nostro ordinamento dal 2001, imponeva obblighi a contrarre alle imprese pubbliche o private incaricate per legge della gestione di servizi di interesse economico generale (SIEG) ovvero operanti in regime di monopolio (c.d. incumbent).

Più in particolare, in base all’art. 8, comma 2-quater, tali imprese erano obbligate a concedere a terzi che ne avessero fatto richiesta i medesimi beni e/o servizi già concessi alle proprie controllate e/o partecipate, attive in mercati diversi da quelli in cui le imprese incumbent operano. I beni e/o i servizi de quo erano dunque quelli di cui tali imprese avevano la disponibilità esclusiva in ragione della loro particolare condizione giuridica di vantaggio dettata dal fatto di gestire un SIEG o di essere monopolista.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”), con parere dell’11 settembre 2024, ha manifestato le proprie perplessità al Governo e al Parlamento sulla scelta adottata dal legislatore di abrogare una norma posta a presidio della concorrenzialità dei mercati a valle di quelli in cui opera un incumbent, o a quest’ultimi collegati, al fine di evitare forme di indebito vantaggio competitivo.

Secondo l’Autorità, “[l]a ratio della norma è di garantire il level playing field tra i concorrenti attivi in tali mercati collegati, che subirebbe, invece, una significativa compressione laddove a un operatore fosse consentito di entrare su un mercato in libera concorrenza potendo contare su asset non acquisibili dai terzi, di cui ha la disponibilità esclusiva in quanto gestore di un SIEG. Del resto, già la prima parte della norma identifica la finalità della stessa, ossia quella di garantire “pari opportunità di iniziativa economica” tra gli operatori attivi nei mercati interessati”.

L’AGCM riconosce che la norma è stata di fatto applicata solo due volte in passato, ma sottolinea l’importanza che ha avuto la disposizione in un’ottica di prevenzione ex ante delle situazioni “patologiche” di alterazione del principio della parità delle armi, svolgendo quindi un ruolo di indirizzo in senso pro-concorrenziale della condotta delle imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale o che operano in regime di monopolio.

Con il Provvedimento n. 25795 del 16 dicembre 2015, l’Autorità aveva accertato la violazione dell’articolo 8, comma 2-quater, da parte di Poste Italiane, nell’ambito dei servizi di telefonia mobile per aver omesso di offrire, dopo esplicita richiesta di H3G S.p.A., l’accesso ai beni e servizi di cui essa stessa aveva la disponibilità esclusiva in dipendenza delle attività rientranti nel servizio postale universale, in quanto afferente ai SIEG, a condizioni equivalenti a quelle offerte a Poste Mobile.

Il provvedimento era stato impugnato dinanzi al TAR Lazio che aveva respinto il ricorso con pronuncia n. 9965 del 28 settembre 2016, ritenendo corrette le conclusioni cui era giunta l’Autorità, in particolare sull’articolo 8, comma 2-quater, rilevando che essa “[s]i pone a tutela della struttura concorrenziale del mercato intesa in senso lato, vale a dire a garanzia di parità di strumenti concessi alla libera iniziativa imprenditoriale, al fine di stimolare tutti i “competitors” a confrontarsi e concentrarsi sulla qualità del prodotto offerto, intesa come migliore proposta al consumatore, evitando posizioni di “nicchia” o benefici/rendite di posizione derivanti dall’usufruire di risorse riservate”.

Di recente, l’Autorità, con provvedimento n. 31280 del 16 luglio 2024, (SP182 – Poste Italiane/Fornitura energia elettrica e gas)  ha accertato, ancora una volta nei confronti di Poste Italiane, la violazione dell’art. 8, comma 2-quater, non avendo quest’ultima consentito ad A2A e a Iren, che ne avevano fatto richiesta, di accedere alla propria rete postale per commercializzare offerte di servizi di vendita al dettaglio di energia elettrica e di gas naturale e porsi, così, in condizioni equivalenti a quelle invece offerte a PostePay, controllata di Poste Italiane, attiva con l’offerta Poste Energia nel mercato della vendita al dettaglio di energia elettrica e gas naturale e, dunque, concorrente di A2A e Iren.

L’Autorità ha imposto, quindi, a Poste Italiane di astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quelli censurati con il provvedimento n. 31280 del 16 luglio 2024.

Nonostante l’importanza che l’art. 8, comma 2-quater, riveste nel nostro ordinamento, vi è stata la conversione in legge, n. 143 del 7 ottobre 2024, del Decreto Omnibus che ha confermato l’abrogazione dell’art. 8, comma 2-quater, della legge n. 287/1990.

A presidio della lotta contro condotte discriminatorie o escludenti come quelle che l’art. 8, comma 2 quater mirava a prevenire o a neutralizzare, resta la facoltà dell’Autorità antitrust italiana di far valere le fattispecie di abuso di posizione dominante.

Corporate Sustainability Due Diligence Directive: ambiente e diritti umani per una impresa sostenibile

Nella sessione plenaria del 24 aprile 2024, il Parlamento europeo – con 374 voti a favore, 235 contrari e 19 astenuti – ha approvato il testo definitivo della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (direttiva 2024/1760/UE  – “CSDDD”). L’iter di adozione della direttiva si è concluso formalmente il 24 maggio 2024 con il voto favorevole espresso dal Consiglio dell’Unione.

La direttiva, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 5 luglio 2024, è entrata in vigore il 26 luglio 2024.

Gli Stati membri dovranno recepire la CSDDD nel quadro delle loro legislazioni nazionali entro il 26 luglio 2026.

Sebbene la versione attuale della direttiva risenta del compromesso raggiunto tra i singoli Stati nel marzo del 2024 – risultando infatti ridimensionata, nel suo ambito applicativo, rispetto alla proposta originaria – la sua portata dirompente è innegabile, così come è fuori discussione l’incidenza modificativa che la stessa avrà, nei prossimi anni, sulle scelte strategiche degli operatori di impresa e sul mercato nel suo complesso.

I propositi, le finalità e gli assunti di fondo della direttiva concorrono a definire una prospettiva giuridica e politico-economica particolarmente innovativa, la cui originalità traspare plasticamente negli oltre novanta “considerando” che costituiscono le premesse del testo normativo. Una prospettiva, questa, caratterizzata in primo luogo dalla rilevanza attribuita alla dimensione valoriale posta a fondamento dell’Unione, nonché dalla convinzione per cui, al fine di garantire la promozione e l’effettiva attuazione dei valori fondanti l’Unione europea stessa, sia necessario e improrogabile l’attivo coinvolgimento, in generale, di tutti i soggetti privati e, in particolare, delle imprese.

La CSDDD introduce, per imprese che presentino determinate caratteristiche strutturali, una serie di obblighi attinenti alla gestione degli impatti negativi su diritti umani e ambiente che si verificano – o che possono verificarsi, rilevando in un’ottica anche solo potenziale – nell’ambito delle proprie attività, di quelle delle società da loro controllate e di quelle svolte dai loro partner commerciali; obblighi resi effettivi da meccanismi in grado di far valere la responsabilità delle imprese in caso di violazione degli stessi.

La direttiva prevede inoltre, a carico delle medesime società, l’obbligo di adottare e attuare un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici, e ciò al preciso scopo di garantire la compatibilità dei modelli e delle strategie aziendali con gli obiettivi, sanciti dall’accordo di Parigi del 2015, di contenimento dell’incremento del riscaldamento globale entro la soglia di 1,5 °C.

Nell’ambito soggettivo di applicazione della CSDDD – definito sulla scorta di parametri di carattere perlopiù dimensionale – rientrano le società che soddisfano alcune condizioni, previste dall’articolo 2 della direttiva, afferenti principalmente al livello di fatturato netto e al numero di dipendenti in servizio.

Più nel dettaglio, per le società costituite in conformità alla normativa di uno Stato membro, l’applicazione della CSDDD è subordinata all’aver avuto, nell’ultimo esercizio, oltre 1.000 dipendenti e un fatturato netto, a livello mondiale, superiore a euro 450.000.000. Per espressa previsione del legislatore europeo, inoltre, sono assoggettate agli obblighi della direttiva anche le società a capo di gruppi che hanno raggiunto i livelli minimi di fatturato e di numero di dipendenti poc’anzi menzionati, nonché le società che abbiano concluso, nell’Unione, accordi di franchising o di licenza con società terze a fronte di royalties superiori a euro 22.500.000 e che abbiano conseguito un fatturato netto, a livello mondiale, superiore a euro 80.000.000.

La CSDDD si applica anche a società extra UE, che generano ricavi nel territorio degli Stati membri: in tal caso valgono gli stessi requisiti, ad eccezione della condizione del numero minimo di dipendenti.

Con specifico riguardo ai gruppi di società, la CSDDD prende poi in considerazione l’ipotesi in cui l’attività principale della società capogruppo consista nella partecipazione in società e non comporti l’adozione di decisioni gestionali che possano incidere sul gruppo o su una o più delle sue controllate; in tal caso, si prevede espressamente l’esenzione della capogruppo dall’adempimento degli obblighi previsti dalla direttiva, purché una delle sue controllate venga designata per adempiere a tali obblighi per conto della capogruppo.

Ad ogni modo, affinché le prescrizioni della CSDDD possano trovare concreta applicazione, si richiede che le società coinvolte soddisfino le condizioni sopra esposte per due esercizi finanziari consecutivi.

Le imprese rientranti nelle categorie qui considerate dovranno, secondo quanto disposto dall’articolo 5 della direttiva, esercitare “il dovere di diligenza basato sul rischio in materia di diritti umani e ambiente” e ciò, chiaramente, al precipuo scopo di prevenire o ridurre gli impatti negativi che possono emergere in tali ambiti.

In questa prospettiva, ciascuna società sarà quindi tenuta a porre in essere una serie di azioni specificamente individuate, quali: integrare il dovere di diligenza nelle proprie politiche e nei propri sistemi di gestione dei rischi; individuare, valutare, prevenire e attenuare, con misure adeguate, gli impatti negativi derivanti dal proprio business, siano essi effettivi o potenziali e attribuire livelli di priorità ai predetti impatti; fornire adeguati rimedi a fronte del verificarsi di un impatto negativo; avviare un dialogo significativo con gli stakeholders; istituire un meccanismo idoneo a consentire segnalazioni e reclami in merito agli impatti negativi della società; effettuare valutazioni periodiche sull’efficacia e sull’adeguatezza delle politiche e delle misure adottate; pubblicare annualmente, sul proprio sito web, una dichiarazione in cui dare atto delle attività svolte per prevenire o attenuare gli impatti negativi su diritti umani e ambiente.

Nell’ottica di promuovere uno sviluppo economico sostenibile, il legislatore europeo, con l’assetto normativo qui brevemente illustrato, ha inteso regolamentare anche la gestione degli impatti negativi su ambiente e diritti nell’ambito della “catena di attività” delle imprese (c.d. “supply chain”).

Gli obblighi di due diligence introdotti dalla CSDDD, infatti, incombono sulle società anche in relazione alle attività svolte dai loro partner commerciali.

In questa prospettiva, il riferimento alle attività dei partner commerciali comprende, per un verso, le attività che tali soggetti svolgono “a monte” di una società rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva, ossia attività di impresa afferenti alla produzione dei beni e alla prestazione dei servizi offerti da tale società e, per altro verso, le attività svolte “a valle”, riguardanti la distribuzione, il trasporto e l’immagazzinamento dei prodotti della società medesima. Detto in altri termini, le grandi imprese dovranno  individuare, prevenire, mitigare, ridurre o interrompere gli impatti negativi, su diritti umani e ambiente, che possono concretizzarsi, o effettivamente verificarsi, lungo tutta la catena del valore.

Ma non è tutto. Al fine di garantire l’esatta osservanza degli obblighi posti dalla CSDDD, ciascuno Stato membro dovrà designare una o più autorità di controllo.

Secondo quanto statuito espressamente dal testo della direttiva, tali autorità potranno: 1) effettuare indagini – d’ufficio o a seguito di specifiche segnalazioni – in merito a ipotesi di violazione, da parte di una società, delle disposizioni di diritto nazionale che avranno recepito la disciplina della direttiva; 2) compiere ispezioni, previo avviso alla società coinvolta e nel pieno rispetto del diritto nazionale dello Stato membro in cui si svolgerà l’ispezione; 3) ordinare alla società oggetto di indagine di porre fine alla violazione rilevata, di astenersi da qualsiasi reiterazione della condotta e, se del caso, di fornire rimedi proporzionati. Inoltre – e questo è, forse, il profilo più rilevante – le autorità di controllo avranno anche il potere, a fronte di accertate violazioni, di irrogare le relative sanzioni.

Quanto a quest’ultimo punto, l’impianto normativo della CSDDD lascia in linea generale ai singoli Stati membri alcuni margini di manovra, rimettendo a essi l’individuazione delle sanzioni, a condizione che queste siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Gli Stati membri dovranno, in ogni caso, prevedere sanzioni di carattere pecuniario, il cui tetto massimo non potrà comunque essere inferiore al 5% del fatturato netto mondiale conseguito dalla società nell’esercizio che precede l’adozione della decisione impositiva della sanzione pecuniaria. Nell’eventualità di non ottemperanza agli obblighi di prevenzione e/o interruzione degli impatti negativi, la disciplina introdotta dalla direttiva precisa che la società possa essere ritenuta civilmente responsabile dei danni cagionati -per effetto di tale inosservanza – a persone fisiche e giuridiche; soggetti, questi, a cui la CSDDD riconosce espressamente il diritto a ottenere un pieno risarcimento in conformità alle specifiche normative nazionali. È comunque esclusa la responsabilità civile della società nel caso in cui il danno sia stato cagionato soltanto dai suoi partner commerciali nell’ambito della sua catena del valore.

Da ultimo, è necessario evidenziare che la CSDDD troverà applicazione secondo l’approccio gradualistico delineato dall’articolo 37, del quale, chiaramente, dovranno tener conto gli Stati membri in sede di recepimento.

In particolare, gli obblighi previsti dalla direttiva riguarderanno:

1) decorsi tre anni dalla sua entrata in vigore (quindi a partire dal 26 luglio 2027), soltanto le società, UE che abbiano avuto più di 5.000 dipendenti e abbiano generato un fatturato netto, a livello mondiale, superiore a euro 1.500.000.000 nell’ultimo esercizio, precedente al 26 luglio 2027, nonché le società costituite in conformità alla legislazione di un Paese terzo che abbiano generato un fatturato netto di oltre euro 1.500.000.000 nell’Unione nell’esercizio antecedente all’ultimo esercizio precedente al 26 luglio 2027.

2) decorsi quattro anni dalla sua entrata in vigore (dal 26 luglio 2028), le società, costituite in conformità alla normativa di uno Stato membro, che abbiano avuto più di 3.000 dipendenti e abbiano generato un fatturato netto, a livello mondiale, superiore a euro 900.000.000 nell’ultimo esercizio, precedente al 26 luglio 2028, nonché le società costituite secondo la legislazione di un Paese terzo che abbiano generato un fatturato netto superiore a euro 900.000.000 nell’Unione nell’esercizio antecedente all’ultimo esercizio precedente il 26 luglio 2028.

3) decorsi cinque anni dalla sua entrata in vigore, (26 luglio 2029) tutte le altre società, costituite in conformità alla legislazione di uno Stato membro, che abbiano avuto, nell’ultimo esercizio, oltre 1.000 dipendenti e un fatturato netto, a livello mondiale, superiore a euro 450.000.000 e le società extra UE che abbiano avuto, nell’ultimo esercizio, un fatturato netto a livello UE superiore a euro 450.000.000.

Rappresentanza di genere nei board: per quanto ancora saranno necessarie le “hard law”?

La cronaca economica ha riportato in queste settimane la notizia per cui Cassa Depositi e Prestiti, società per azioni controllata dal Ministero del Tesoro, stia incontrando difficoltà a comporre un nuovo consiglio di amministrazione a causa della necessità di rispettare la quota di genere. È dei giorni scorsi la notizia che Cassa Depositi e Prestiti ha alla fine nominato i nuovi organi sociali, modificando lo statuto nel rispetto delle quote di rappresentanza di genere[1].

Al di là delle polemiche politiche e delle semplificazioni giornalistiche, il caso resta tuttavia di interesse, per avere riportato all’attenzione l’ormai lungo percorso della disciplina italiana della rappresentanza di genere, che dal 2011 (con la legge 12 luglio 2011, n. 120, c.d. “Golfo-Mosca”) ha imposto, modificando il testo del Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria (TUF), vincoli per gli organi amministrativi (nonché per gli organi di controllo) delle società quotate, che dopo la L. 160 del 2019 sono giunti a prevedere una quota minima del genere meno rappresentato pari ai 2/5 dei componenti.

Il principio della rappresentanza di genere come principio idoneo a garantire e promuovere la pluralità di posizioni e punti di vista in seno ai consigli di amministrazione ha progressivamente permeato l’ordinamento.

Innanzitutto i vincoli di genere per le società pubbliche nella composizione degli organi sociali, già previsti in linea generale nella legge Golfo-Mosca, sono stati specificati nel dettaglio con il D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251, che, in attuazione dell’articolo 3, comma 2, della legge 12 luglio 2011, n. 120 ha stabilito l’obbligo, negli organi sociali delle società controllate dagli enti pubblici, di garantire una quota di almeno un terzo dei componenti al genere meno rappresentato. Il principio, inoltre, è stato ribadito dall’art. 11 del Testo unico delle società partecipate pubbliche, d.lgs. 175 del 2016 [2].

La legge 5 novembre 2021, n. 162, infine, ha previsto all’art. 6 che le disposizioni di cui al comma 1-ter dell’articolo 147-ter del TUF, si applicano anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni non quotate in mercati regolamentati, delegando a un regolamento da adottare entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge 162/2021 di apportare al regolamento contenuto nel già citato D.P.R. 251/2012 le modifiche necessarie a dare attuazione all’allineamento con il TUF.

Per quanto caratterizzate dalla temporalità dei loro effetti (attualmente destinati ad avere efficacia solo per 6 mandati, pari a diciotto anni), le innovazioni legislative che hanno preso l’avvio con la legge Golfo-Mosca hanno segnato una tendenza evolutiva del nostro ordinamento, che è giunta sino alla regolamentazione di livello secondario (si veda ad esempio la Circolare di Vigilanza Banca d’Italia n. 285/2013 del 30 giugno 2021, Provvedimento IVASS n. 142 del 5 marzo 2024, che ha modificato il Regolamento IVASS n. 38 del 2018) e alla c.d. soft law, in primis il Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.a..

D’altronde, un effetto dell’impatto prodotto dalle disposizioni normative in rassegna è confermato dalla circostanza insolita per cui sullo specifico tema è stata proprio l’Italia l0 stato membro che ha anticipato l’iniziativa normativa dell’Unione Europea, che aveva licenziato la direttiva ‘Women on board’ (Direttiva UE No. 2381/2022) solo nel 2022 e dopo una gestazione lunga dieci anni. Su questo aspetto, per approfondimenti, rinviamo ad un recente contributo dello Studio “Women on boards: un confronto tra la Direttiva UE 2022/2381 e la legge italiana sulla presenza del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione delle società quotate”.

La vicenda di Cassa Depositi e Prestiti, dunque, per quanto risoltasi positivamente, ha racchiuso in sé diversi dei temi (sia positivi, sia critici) emersi in questi oltre dieci anni di applicazione della normativa italiana sulla rappresentanza di genere e, in particolare, quello relativo al carattere temporaneo della norma (temporaneità quale strumento legislativo previsto dalla legge Golfo-Mosca per temperare il carattere fortemente precettivo della norma, alla luce del valore costituzionale delle finalità perseguite)[3].

In particolare, Cassa Depositi e Prestiti aveva già recepito volontariamente, a livello statutario, l’impegno a garantire la quota dei due quinti del genere meno rappresentato nel suo statuto, anticipando il Regolamento attuativo della L. 162 del 2021, che non è ad oggi ancora stato approvato, per quanto sia ampiamento decorso il termine di due mesi previsto dall’art. 6 della medesima legge.

Tale vincolo, nelle scorse settimane, ha condotto ad un confronto politico nella determinazione delle nuove nomine tra esponenti del genere sotto-rappresentato che, apprendiamo dagli organi di stampa, avrebbe determinato uno stallo decisionale nelle assemblee precedenti a quella del 15 luglio scorso.

Riferiscono gli organi di stampa che gli azionisti di Cassa Depositi e Prestiti, tra le soluzioni ipotizzate, avrebbero anche considerato di modificare lo statuto, in modo da prevedere l’abbassamento della quota “di genere” da due quinti a un terzo, applicando la quota più bassa, secondo l’ultimo riferimento normativo applicabile nelle more dell’approvazione del regolamento attuativo.

L’assemblea del 15 luglio 2024 – prima straordinaria per ratificare l’allargamento dell’organo di governance, e poi ordinaria per procedere alle nomine – ha, infine, consentito di allargare a undici (da nove membri), consentendo così l’accordo fra i partiti di maggioranza nel rispetto delle quote “di genere”, che salgono da quattro a cinque componenti di CdA per rispettare la quota del 40%.

Al di là della soluzione adottata dalla partecipata pubblica, e di qualsiasi valutazione sulle soluzioni vagliate, tra cui quella di avviare una modifica per legge dello statuto di CDP nelle more dell’applicazione di un regolamento attuativo della precedente L. 162 del 2021, resta da vedere quali riflessioni possano essere tratte per gli operatori del diritto e dell’impresa da questa vicenda delle cronache economiche.

In primo luogo, emerge la grande diffusione a livello culturale del valore aggiunto garantito dal pluralismo di genere nei board (testimoniata dalla grande attenzione su questa e simili vicende, quale ad esempio quella relativa ad Atlantia – Mundys[4]); per contro, la vicenda di Cassa Depositi e Prestiti testimonia la difficoltà – sorprendentemente, soprattutto nell’alveo pubblico – a valorizzare appieno la parità di genere, che è a tutti gli effetti uno dei cardini fondamentali, anche nel nostro ordinamento, della c.d. responsabilità sociale d’impresa, oggi più che mai centrale nel diritto societario a livello nazionale ed eurounitario.

La diffusione del valore del pluralismo di genere nei board delle società sembra sempre più diffusa nelle norme di primo e di secondo livello, soprattutto per le società di maggiori dimensioni; per contro, il tempismo delle società a provare a liberarsi dei vincoli della Golfo-Mosca non appena cessato l’espresso obbligo di adottarli, sembrerebbe far propendere per prorogare o estendere la disciplina a livello di hard law, e soprattutto di darvi piena attuazione, approvando l’atteso regolamento attuativo della L. 162 del 2021.

Ci pare inoltre che la vicenda di cronaca economica possa anche sottolineare la necessità di un passo verso la compiuta maturazione della cultura della parità di genere in una direzione diversa dal semplice obbligo legale, in particolar modo attraverso la sollecitazione di università, associazioni professionali e di categoria, ad esortare un numero sempre maggiore di candidature di esponenti del genere meno rappresentato, o anche codificando prassi (di comunicazione, sollecitazione, invito a candidarsi) quando si determini una situazione di stallo in caso insufficienza di candidature.

Sotto questo profilo, è auspicabile un sempre maggiore impegno dei professionisti legali nella relazione con i propri clienti per promuovere la parità di genere negli organi sociali, dimostrandone i positivi effetti di medio periodo, anche laddove non soggetti ad obblighi legislativi.

L’adeguata informazione dai professionisti alle imprese sull’evoluzione del sistema normativo può essere un fattore determinante del radicamento di una cultura della parità di genere nelle società di tutte le dimensioni e settori.

[1] Nel comunicato stampa di Cassa Depositi e Prestiti, consultato sul sito della società, si legge che “Le modifiche statutarie approvate in sede straordinaria riguardano l’incremento del numero dei membri che compongono il Consiglio di Amministrazione da 9 a 11 e il rinvio al rispetto della normativa in materia di equilibrio tra i generi nella composizione degli organi sociali (sia per il CdA in composizione ordinaria e separata, sia per il Collegio sindacale), nonché la conseguente revisione dei quorum costitutivi e deliberativi rafforzati”.
[2] Ex multis, E.R. Desana, L’equilibrio di genere nelle “società a controllo pubblico”: figlie di un dio minore? in Speriamo che sia femmina: l’equilibrio fra i generi nelle società quotate e a controllo pubblico nell’esperienza italiana e comparata, Torino, 2021, 111 ss.
[3] Si rammenta che Cassa Depositi e Prestiti aveva già recepito volontariamente, a livello statutario, l’impegno a garantire la quota dei due quinti del genere meno rappresentato nel suo statuto, anticipando il Regolamento attuativo della L. 162 del 2021, che non è ad oggi ancora stato approvato, per quanto sia ampiamento decorso il termine di due mesi previsto dall’art. 6 della medesima legge. Dagli organi di stampa si era appreso, nelle settimane successive alla scadenza degli organi sociali, che gli azionisti avrebbero pensato di modificare lo statuto, in modo da prevedere l’abbassamento della quota da due quinti a un terzo, mantenendo la quota più bassa, secondo l’ultimo riferimento normativo applicabile se il regolamento attuativo non venisse approvato. A titolo di riequilibrio, riferivano sempre gli organi di stampa, Cassa Depositi e Prestiti avrebbe valutato di estendere il vincolo meno restrittivo anche al consiglio di amministrazione della cosiddetta “gestione separata”, dove attualmente non è garantita alcuna rappresentanza del genere meno rappresentato. Come si è visto, la modifica statutaria poi effettivamente adottata non ha toccato questi punti.
[4] Atlantia S.p.A. (oggi Mundys S.p.a.) ha effettuato nel dicembre 2022 il delisting dai mercati regolamentati, nominando, quindi un Consiglio di Amministrazione interamente di genere maschile, non essendo più soggetta agli obblighi della Legge Golfo-Mosca. A seguito del clamore suscitato da tale scelta, la società ha quindi nominato una componente di genere femminile nel consiglio di amministrazione.

Energy: Guida operativa per l’autorizzazione degli impianti BESS

Lo scorso 16 aprile il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (“MASE”) ha pubblicato la Guida operativa per la predisposizione delle istanze di Autorizzazione Unica dei sistemi di accumulo elettrochimico in configurazione stand alone.

In particolare, la Guida operativa definisce il procedimento per l’ottenimento dell’Autorizzazione Unica per gli impianto BESS (Battery Energy Storage System) ubicati all’interno di aree già occupate da impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonte fossile di potenza maggiore o uguale a 300 MW termici in servizio, nonché gli impianti stand-alone ubicati in aree non industriali e le eventuali connessioni alla rete – ai sensi dell’art. 1, comma 2-quater, lettera b), del d.l. 7 febbraio 2002, n. 7.

La competenza al rilascio dell’autorizzazione è attribuita alla Divisione IV della Direzione Generale Fonti Energetiche e Titoli Abilitativi (DG-FTA) del MASE, salvo nei casi in cui i progetti siano ubicati nella Regione Sicilia: in tale ipotesi, la competenza è attribuita al Servizio 3 del Dipartimento Regionale dell’Energia dell’Assessorato regionale Energia e Servizi di Pubblica Utilità della regione siciliana.

La Guida operativa definisce il contenuto minimo della documentazione per la predisposizione dell’istanza e per l’avvio del procedimento autorizzativo che si svolge tramite la indizione di una Conferenza dei Servizi asincrona. Tra le misure di semplificazione incentivanti, si segnala, in particolare, che per gli impianti BESS non sono richieste valutazioni ambientali ai sensi del Testo Unico dell’Ambiente né è necessario acquisire l’intesa da parte delle regioni interessate.

Il procedimento si articola nelle seguenti fasi: una volta esaminata l’istanza e i relativi allegati, il MASE – ove non ritenga necessaria un‘integrazione documentale – indice la Conferenza di Servizi asincrona, trasmettendo il progetto agli enti ed alle amministrazioni competenti a pronunciarsi e svolgendo le verifiche antimafia. Ove necessario, avvia l’endo-procedimento di apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

A seguito delle verifiche finali dei pareri e delle comunicazioni pervenute, valuta nei casi previsti dalla legge l’avvio della Conferenza di Servizi sincrona. Segue infine la predisposizione della nota di chiusura del procedimento con determina conclusiva e, in caso di esito positivo della Conferenza di Servizi, del decreto autorizzativo.

A tal fine, il MASE ha altresì pubblicato una check-list per la predisposizione degli elaborati e la modulistica di riferimento.

La Guida operativa e i relativi allegati sono disponibili qui

Si tratta di un ulteriore step, in termini di chiarezza delle norme e procedure applicabili, per l’accelerazione della realizzazione di sistemi di accumulo stand alone ritenuti a loro volta fondamentali nel processo di transizione energetica e la necessità di raggiungere la progressiva e completa decarbonizzazione entro il 2050; un’importante sfida che impone all’Europa -e dunque anche all’Italia- di incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili, la quale non può che essere accompagnata da un progressivo incremento della disponibilità di energy storage capacity.

 

Tiziana Fiorella

Alberto Taverniti

Il TAR boccia il PiTESAI. Nuove prospettive per il settore Oil & Gas

Il 12 febbraio 2024, con le sentenze n. 2858 e n. 2872, il TAR Roma ha annullato il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (“PiTESAI”), approvato con decreto del 28.12.2021, n. 548, dell’allora Ministro della Transizione Ecologica, con cui erano state delimitate le aree “idonee” all’esercizio delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi all’interno del territorio nazionale, riducendo considerevolmente lo sfruttamento di giacimenti nazionali di idrocarburi.

In particolare, il TAR Roma, ha accolto i ricorsi promossi da Gas Plus e Padana Energia, con l’intervento ad adiuvandum di Rockhopper Civita Limited, ravvisando diverse carenze istruttorie e motivazionali nella procedura di redazione e approvazione del Piano, che ne hanno inficiato la legittimità.

Secondo il TAR, durante la fase di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), il Ministero aveva violato le garanzie partecipative, omettendo di considerando i contributi offerti da associazioni di riferimento per le aziende del settore minerario, come Assorisorse.

Il TAR ha anche evidenziato come il PiTESAI, nella versione finale, non fosse accompagnato da una rappresentazione grafica completa delle aree e come questa fosse una carenza insanabile.

Il TAR ha censurato altresì le modalità con cui il Ministero aveva individuato le aree “idonee” all’esercizio delle attività minerarie: invece di effettuare, una preventiva valutazione sito-specifica delle singole situazioni, come prescritto dall’art. 11-ter del D.L. 135/2018, (convertito in l. n. 12/2019), il Ministero aveva effettuato un’individuazione di tipo residuale, applicando al territorio interessato dal PiTESAI una serie di “fattori escludenti”, prestabiliti in via generale, astratta e trasversale. In questo modo, secondo il TAR, la natura astratta dei vincoli ha illegittimamente interessato titoli minerari in essere, dando vita a divieti di estrema estensione e rigidità.

Criticata anche la casistica 2.B.II.3 del PiTESAI, che subordina la prorogabilità dei titoli concessori produttivi e/o improduttivi da meno di cinque anni, ricadenti in “area non idonee”, al previo superamento di una “complessa ed aleatoria” analisi dei costi/benefici. Secondo il TAR, tale modalità, basata, peraltro, su fattori non fissati dalla legge, né individuati da un provvedimento amministrativo, aveva introdotto notevoli rigidità.

È stata, infine, censurata la casistica 2.B.II.1 del Piano nella parte in cui aveva escluso la prorogabilità dei titoli concessori ricadenti in aree potenzialmente idonee ed improduttivi da più di sette anni, atteso che la soglia di improduttività (come pure quella dei cinque anni relativa alle concessioni site nelle aree non idonee) era tale da ricomprendere anche i periodi in cui il fermo produttivo era stato espressamente autorizzato dai competenti organi amministrativi.

Il Governo, ossia l’attuale Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, potranno presentare appello avverso le sentenze del TAR; in alternativa (o in aggiunta), è possibile – anzi, auspicabile – l’avvio di un lavoro di razionalizzazione di regole stratificate da decenni di spinte contrapposte e di governi di diverso “colore”.

Allo stato, l’annullamento del PiTESAI comporta un ritorno allo status quo ante. Non è escluso che possa aversi anche una riviviscenza, ove possibile, di concessioni già scadute o in procinto di scadere. Resta anche da capire che impatto avranno le sentenze su alcune norme collegate al PiTESAI, quali ad esempio la Gas Release prevista dal recente DL Energia, ove, tra le altre cose, si dispone che sono ammessi a partecipare alle procedure per l’approvvigionamento di lungo termine i titolari di concessioni esistenti, i cui impianti di coltivazione di gas naturale sono situati in tutto o in parte in aree considerate idonee nell’ambito del PiTESAI (art. 2, comma 2).

Women on boards: un confronto tra la Direttiva UE 2022/2381 e la legge italiana sulla presenza del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione delle società quotate

  1. La Direttiva UE 2022/2381 “Women on boards

 1.1 Direttiva Women on boards: finalità, contenuti, ambito di applicazione.

La Direttiva Women on boards (direttiva UE n. 2381/2022), pubblicata in G.U. dell’Unione europea in data 7 dicembre 2022 ed entrata in vigore il 27 dicembre 2022 (“Direttiva”) mira a migliorare l’applicazione del principio di pari opportunità tra donne e uomini nei consigli di amministrazione, stabilendo, secondo trasparenza e meritocrazia, i requisiti per la procedura di selezione dei candidati per la nomina alle posizioni di amministratore.

Nei “Considerando”, infatti, si riconosce che la presenza delle donne nei consigli di amministrazione “migliora il governo societario, in quanto i risultati di squadra e la qualità del processo decisionale sono rafforzati da una mentalità più diversificata e più collettiva, che assorbe una gamma più ampia di prospettive” (cfr. Considerando 16); viene dato, inoltre, rilievo “all’impegno di eliminare il divario retributivo di genere intensificando gli sforzi per affrontare tutte le barriere alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro” (cfr. Considerando 10).

Il Legislatore europeo se, da un lato, stabilisce misure efficaci dirette a raggiungere una rappresentanza più equilibrata di donne e uomini fra gli amministratori delle società quotate, con e senza incarichi esecutivi, dall’altro lato, avendo optato per lo strumento della direttiva anziché del regolamento di diretta applicazione negli ordinamenti interni, non si prefigge di armonizzare nel dettaglio le normative nazionali sul processo di selezione e sui criteri di quantificazione alle posizioni di amministratore ma intende introdurre per le società quotate dei requisiti minimi per la selezione dei candidati per la nomina o per l’elezione degli amministratori sulla base di un processo di selezione trasparente, oggettivo e meritocratico.

L’articolo 2 della Direttiva esclude dal perimetro applicativo della stessa le società quotate del segmento PMI[1] (vale a dire le micro, piccole e medie imprese che occupano meno di 250 dipendenti, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro).

Entro il 30 giugno 2026, tutte le grandi società quotate in mercati regolamentati nell’UE dovranno adottare delle misure per incrementare la presenza delle donne alla loro guida.

Per raggiungere gli obiettivi della Direttiva, l’art. 5 indica due soglie, alternative tra loro, il cui raggiungimento potranno prefiggersi gli Stati membri.

Nella prima ipotesi, gli appartenenti al sesso sottorappresentato dovranno occupare almeno il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi (art. 5.1 lett. a)); nella seconda ipotesi, ovvero nel caso in cui gli Stati membri scelgano, invece, di applicare le nuove norme agli amministratori con e senza incarichi esecutivi, la percentuale scende al 33% di tutte le posizioni da amministratore di una società quotata (art. 5.1 lett. b)).

Gli Stati membri che abbiano scelto la prima ipotesi e, dunque, di applicare la Direttiva ai soli amministratori senza incarichi esecutivi saranno comunque tenuti a fissare per le società quotate obiettivi minimi individuali al fine di migliorare l’equilibrio di genere anche tra gli amministratori con incarichi esecutivi (art. 5.2).

Onde evitare che il genere sotto-rappresentato superi l’altro genere determinando nuovamente un disequilibrio, quale che sia l’ipotesi scelta dagli Stati membri, il genere meno rappresentato non dovrà eccedere una percentuale superiore al 49 %.

L’art. 6 individua i mezzi che gli Stati Membri dovranno richiedere alle società quotate affinché le stesse conseguano gli obiettivi della Direttiva, soffermandosi soprattutto sulla procedura di selezione dei candidati, nonché sulla preparazione degli avvisi di posto vacante, sulla fase di preselezione, sulla fase di valutazione oggettiva dei candidati (per idoneità, competenza e rendimento professionale) e sulla successiva ed eventuale fase di motivazione della scelta.

Gli Stati membri dovranno inoltre dotare i propri sistemi giuridici nazionali di norme che impongano alla società quotata l’onere probatorio di dimostrare la correttezza del processo di selezione adottato per l’ipotesi in cui un candidato del sesso sotto-rappresentato che non sia selezionato adduca elementi in sede giudiziale a sostegno della parità di qualifiche di tale candidato rispetto a quelle del candidato selezionato per la nomina ad amministratore.

Quanto alla cogenza della normativa, la Direttiva impone agli Stati membri di prevedere misure sanzionatorie verso le società quotate che non si adeguino alla nuova normativa (segnatamente per le violazioni degli artt. 5, paragrafo 2, e articolo 6 e 7 della Direttiva) dando termine entro il 28 dicembre 2024 affinché le norme e le misure sanzionatorie adottate dai singoli Stati membri siano comunicati alla Commissione europea.

Il termine di cui sopra è in linea con quello di recepimento della Direttiva che, infatti, impone agli Stati membri di adottare e pubblicare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro il 28 dicembre 2024 (art. 11); mentre le società quotate destinatarie della nuova disciplina dovranno conseguire gli obiettivi individuati dalla stessa – sulla base delle legislazioni che saranno via via adottate dai singoli Stati membri – entro il 30 giugno 2026 (art. 5).

 

  1. Il background della Direttiva e la Legge Golfo Mosca

Il percorso per giungere all’approvazione della Direttiva è stato lungo e tormentato.

Preso atto che i consigli delle società europee erano caratterizzati da persistenti disparità di genere e che nel 2012, nei consigli di amministrazione delle maggiori società quotate nelle borse europee, la presenza delle donne non superava la misura pari al 13,7% (15% nel caso di incarichi non esecutivi)[2], nel novembre 2012 la Commissione Europea ha presentato la proposta di Direttiva, “COM (2012) 614 final”, riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori senza incarichi esecutivi delle società quotate in Borsa e relative misure (“Proposta di Direttiva”).

La Proposta di Direttiva si inseriva in un contesto che aveva già visto le istituzioni europee esprimersi a vario livello sui temi della promozione della parità di genere e sulle pari opportunità (anche retributive) fra donne e uomini, nonché sull’importante crescita economica che sarebbe derivata dalla mobilitazione di tutte le risorse umane, soprattutto delle donne altamente qualificate.

In seno alle stesse istituzioni europee si è, così, avviata già dal 2010 una prima consultazione sulla possibilità che l’Unione Europea assumesse provvedimenti diretti ad imporre quote di genere nell’ambito degli organi di governo delle imprese private, sollecitando il dialogo degli Stati membri e delle parti sociali in merito all’opportunità di introdurre una disciplina specifica, all’obbligatorietà o meno della stessa, all’ambito applicativo ed all’entità della quota da riservare al genere meno rappresentato (dal 20 % al 60 %).

In particolare, la Commissione europea ha ribadito il proprio sostegno a una maggiore presenza delle donne nelle posizioni di responsabilità, con la Carta per le donne del 2010[3], in cui viene riconosciuto “l’impegno a perseguire l’obiettivo di una più equa rappresentazione di donne e uomini nelle posizioni di potere nella vita pubblica e nell’economia” grazie ad azioni positive “comprese le misure di incentivi dell’Unione, per promuovere un incremento della quota femminile in posizioni di responsabilità”, impegno che è stato rinnovato anche nel documento programmatico “Strategia della Commissione europea per la parità tra donne e uomini 2010-2015[4] adottato dalla Commissione il 21 settembre 2010.

Dal canto suo, anche il Consiglio, nel Patto europeo per la parità di genere 2011-2020 adottato il 7 marzo 2011, aveva riconosciuto che la centralità delle politiche volte a promuovere la parità di genere sotto i profili della crescita economica, della prosperità e della competitività, sollecitando quindi azioni di promozione della pari partecipazione di donne e uomini ai processi decisionali a tutti i livelli e in tutti i settori, allo scopo di utilizzare pienamente tutti i talenti disponibili.

Da ultimo, il Parlamento europeo ha ripetutamente esortato le imprese e gli Stati membri ad incrementare la rappresentanza delle donne negli organi decisionali e ha invitato la Commissione a proporre per via legislativa delle quote per raggiungere la soglia fondamentale del 30%.

Pur continuando a più riprese ad essere dichiarata come una delle priorità dell’agenda europea la Proposta di Direttiva è rimasta incagliata per alcuni anni e fino a che – a distanza di 10 anni, nel novembre del 2022, è stato approvato il testo della Direttiva.

In questo quadro, segnato dai ripensamenti del legislatore europeo e da profonde disuguaglianze tra le legislazioni nazionali degli stati membri dell’Unione Europea, l’Italia si colloca tra i paesi che hanno predisposto, volontariamente e in via autonoma, una propria regolamentazione domestica per perseguire le politiche di parità di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società con azioni quotate in borsa e delle società a controllo pubblico. Il legislatore italiano è, infatti, intervenuto con la legge 12 luglio 2011, n. 120 c.d. Legge Golfo-Mosca (“Legge Golfo-Mosca”), opportunamente implementata – quanto a contenuto e durata – dal Decreto Bilancio 2020 (legge n. 160/2019) che ne ha potenziato l’impatto (v. infra § 3.1).

Con l’introduzione di regole destinate a incidere sui meccanismi di reclutamento dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate in mercati regolamentati e delle società a controllo pubblico, la Legge Golfo-Mosca rappresenta a tutt’oggi un caso esemplare di regolazione della rappresentanza di genere in ambito economico.

La direttiva “Women on Boards”, tesa a stabilire una strategia comune per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, vuole, dunque, fare un passo avanti nel garantire condizioni uniformi in termini di corporate governance per le società quotate europee, andando così a integrare gli sforzi già compiuti dai singoli legislatori nazionali, in primis quello italiano.

 

  1. Direttiva Women on boards: cosa cambia per l’Italia.

3.1 L’Italia precorritrice dell’UE: la c.d. Legge Golfo-Mosca (legge 12 luglio 2011, n. 120).  

Come detto, in Italia l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate e delle società a controllo pubblico è obbligatorio dal 2011.

La stessa Commissione europea, infatti, all’indomani dell’approvazione della Direttiva ha citato proprio la legge Golfo-Mosca come legge da seguire in tema di parità di genere aziendale in Europa.

È un dato di rilevo perché l’Italia, per la prima volta rispetto ad una normativa di fonte europea, ha anticipato i tempi prevedendo prima del Legislatore europeo l’obbligo delle quote negli organi di governance delle società quotate e a partecipazione pubblica.

La Legge Golfo-Mosca apportando significative modifiche agli articoli 147 ter, 147 quater e 148 del T.U. n. 58 del 1998 ha prescritto, nella sua prima formulazione, quote minime del genere sotto-rappresentato pari a un terzo dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società per azioni quotate e a partecipazione statale[5], da applicarsi dalla data di entrata in vigore della legge per tre mandati consecutivi di detti organi.

La portata della legge è stata poi ampliata, con riferimento alle sole società quotate, dalla legge di bilancio 2020, n. 160 del 27 dicembre 2019[6] che ha innalzato la quota riservata al genere sottorappresentato (da un terzo come prevedeva originariamente la norma) a due quinti dei componenti e ha esteso l’operatività delle nuove previsioni a ulteriori sei mandati, a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e controllo successivo al 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge.

Tale legge, che ha già attraversato tre mandati dei consigli di amministrazione delle società destinatarie, in base all’ultimo rapporto Consob ha prodotto un risultato di presenze femminili nei consigli di amministrazione delle quotate pari al 42,8%[7].

Le norme dettate per le società a controllo pubblico, a loro volta, sono state arricchite dal d.lgs. 175 del 2016, Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica (T. U.S.P.) che ha introdotto all’art. 11, 4° comma alcune disposizioni che rafforzano, estendendone la durata, quelle originariamente dettate dalla legge n. 120 del 2011[8].

 

3.2 Confronto ed elementi di divergenza della Direttiva Women on boards rispetto alla Legge Golfo-Mosca, come successivamente modificata.

Quali che saranno le scelte del nostro Legislatore nazionale al momento del recepimento della Direttiva, va da sé che queste non potranno prescindere da un confronto rispetto alla normativa nazione attualmente in vigore.

Elemento innovativo che sembra aver guidato il legislatore europeo rispetto a quello nazionale è l’aspetto meritocratico, che si rinviene all’articolo 6 della Direttiva nella previsione sulle misure integrate di salvaguardia in grado di garantire che non vi sia alcuna promozione automatica e incondizionata del sesso sottorappresentato, aspetto non affrontate delle disposizioni di cui agli articoli 147 ter, 147 quater e 148 del T.U.F. né tantomeno dall’art. 11, comma 4° del T.U.S.P che si limitano ad imporre le quote da garantire senza dettare dei principi cardine di trasparenza e meritocratici per il loro raggiungimento.

Altro elemento di divergenza si rinviene nello strumento adottato per l’attuazione degli obiettivi di pari rappresentatività tra i generi.

La Legge Golfo-Mosca prevede, infatti, che le società destinatarie della disciplina debbano ricorrere alla revisione dei propri statuti con previsioni che impongano il rispetto delle quote di genere nella composizione dei propri organi di amministrazione e controllo. Come abbiamo visto, la Direttiva, invece, al suo articolo 6, stabilisce che le misure debbano incidere sul meccanismo di reclutamento senza specificatamente indicare la revisione statutaria come strumento necessario per l’attuazione della soglia.

Ciò detto, altro rilevante elemento di divergenza della Direttiva rispetto alla Legge Golfo-Mosca consiste nell’ambito di applicazione più ristretto della prima rispetto alla seconda.

In aggiunta, a differenza della norma nazionale, la Direttiva non si applica infatti alle imprese pubbliche, ossia alle imprese nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare direttamente o indirettamente un’influenza dominante[9]né tantomeno, come abbiamo visto, alle PMI (art. 2 della Direttiva).

Altra differenza si registra rispetto all’ambito di applicazione soggettivo delle soglie.

Ai sensi della Direttiva, entro il 30 giugno 2026, soltanto le società quotate di grandi dimensioni, dovranno conseguire uno degli obiettivi ivi previsti.

Secondo il primo obiettivo, gli appartenenti al sesso sotto-rappresentato dovranno occupare almeno il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi; nel caso però in cui gli Stati membri scelgano di applicare le nuove norme agli amministratori con e senza incarichi esecutivi, l’obiettivo scende al 33% di tutte le posizioni da amministratore di una società quotata.

La legge Golfo-Mosca non prevede la possibilità che la quota di genere sia applicata ai soli componenti degli organi di controllo, né tantomeno una mitigazione della percentuale da raggiungere, imponendo che gli organi sia di amministrazione sia di controllo delle società quotate debbano garantire al genere sotto-rappresentato la quota del 40% di cariche.

Va, tuttavia, segnalato il carattere temporale delle disposizioni della Legge Golfo-Mosca.

Nella convinzione che allo scadere dei vincoli legislativi le società, dopo averne sperimentato i benefici, continuino spontaneamente a mantenere una composizione equilibrata e diversificata dei propri organi, l’operatività della legge è stata prevista soltanto per un limitato numero di mandati (come visto, tre nella legge Golfo-Mosca e sei nella legge di bilancio 2020), divergenza significativa rispetto alla Direttiva che, invece, non prevede una scadenza delle misure da adottare. Da qui eventuali effetti in sede di recepimento della Direttiva nel nostro ordinamento nazionale.

A questo proposito, va infine segnalato che la Direttiva ammette inoltre che gli Stati membri che abbiano già autonomamente adottato una disciplina in linea con gli obiettivi posti dal Legislatore europeo possano sospendere l’applicazione della stessa nei propri ordinamenti interni.

L’art. 12 della Direttiva prevede, infatti, che gli Stati membri possano sospendere verso le proprie società quotate la disciplina di cui all’art. 6 (che stabilisce gli strumenti cui devono dotarsi le società quotate per conseguire l’equilibrio di genere nei propri consigli) e, se del caso, quella all’articolo 5, paragrafo 2 (che determina le soglie il cui raggiungimento costituisce l’obiettivo della Direttiva), a condizione che alla data del 27 dicembre 2022 (e dunque, in via autonoma, già prima del termine di recepimento della Direttiva) le società quotate destinatarie delle misure soddisfino le condizioni seguenti:

  1. gli appartenenti al genere sotto rappresentato occupino almeno il 30% delle posizioni di amministratore senza incarichi esecutivi o almeno il 25% del totale delle posizioni di amministratore delle società quotate, ma senza che gli amministratori appartenenti al genere meno rappresentato superino il 39%;
  2. il diritto nazionale dello Stato membro (i) imponga alle proprie società quotate le soglie di cui al punto che precede, (ii) preveda misure di esecuzione effettive, proporzionate e dissuasive per il raggiungimento delle soglie del precedente punto (i), (iii) richieda alle società quotate eventualmente non sottoposte alla normativa nazionale di cui ai precedenti punti (i) e (ii), di fissare obiettivi quantitativi individuali per tutte le posizioni di amministratore.

Come si è detto, grazie alla Legge Golfo-Mosca, l’Italia è già in linea con gli obiettivi della Direttiva, e le suddette soglie di cui alla lett. a) sono già state raggiunte dal nostro paese e, inoltre, sembra già realizzata anche la condizione di cui alla lett. b) per cui, rispetto all’Italia la Direttiva potrà incidere nella legislazione interna ma ci dovrà domandare quale sarà la scelta del nostro Legislatore nazionale rispetto alla facoltà, prevista all’articolo 12, di sospendere l’applicazione della disciplina agli articoli 5 e 6, fermo restando che il comma 2 dell’articolo 12 stabilisce uno sbarramento del 39% che, alla luce delle maggiori percentuali raggiunte, potrebbe privare il nostro paese dalla possibilità di dare attuazione al meccanismo di sospensione.

§§

In conclusione, al di là del pregio dei significativi sforzi del nostro Legislatore nazionale, che ha alimentato un cambio culturale che finalmente sta producendo i propri frutti, innovando in materia ancor prima del Legislatore europeo e – per certi aspetti, quali ad esempio l’ambito più di applicazione – con più coraggio, l’approvazione della Direttiva rafforza gli sforzi già compiuti e gli promuove, nel solco di percorso che sembra essere ancora al suo avvio.

Tale riflessione è confermata da una verifica dei numeri dei consigli di amministrazione delle società non quotate, che non essendo destinatari della normativa, ancora, oggi, non vedono un decollo delle presenze femminili.

In conformità alla strategia della parità di genere dell’Unione che si dovrà realizzare entro il 2026, si scorge però un primo importante passo verso la consapevolezza di considerare, oggi, sempre di più, l’investimento nella parità di genere per la corporate governance come un driver importante delle imprese, ciò anche nel contesto della più ampia tendenza a ricercare negli ESG e nei principi di CSR degli alleati nella crescita delle imprese.

 

 

[1] All’art. 3 n. 8) della Direttiva, è definita «micro, piccola e media impresa» o «PMI»: «una società che occupa meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di ERU oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR oppure, per una PMI che ha la sede legale in uno Stato membro la cui moneta non è l’euro, gli importi equivalenti nella moneta di tale Stato membro».
[2] Cfr. la “Relazione sullo stato di avanzamento della situazione Women in economic decisionmaking in the EU”, dati di marzo 2012 (http://ec.europa.eu/justice/gender-equality/files/women-onboards_en.pdf).
[3] Cfr. la “Dichiarazione della Commissione europea in occasione della giornata internazionale della donna 2010”, COM (2010) 78 definitivo del 5 marzo 2010, cfr. https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0078:FIN:IT:PDF;
[4] Cfr. “COM (2010) 491 definitivo”, https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0491:FIN:it:PDF; su questo solco si veda, inoltre, la Comunicazione della Commissione al Parlamento per il quinquennio 2020-2025 (cfr. COM/2020/152 final) in cui, nuovamente evidenziata la centralità della Direttiva quale uno dei principali strumenti di attuazione dell’uguaglianza di genere tra i cittadini dell’UE “per contribuire a rompere il soffitto di cristallo”, viene dato atto che “la Commissione insisterà per l’adozione della proposta di direttiva, presentata nel 2012, riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione, che ha fissato l’obiettivo minimo del 40 % di presenza del sesso sottorappresentato fra i membri senza incarichi esecutivi nei consigli di amministrazione […]” (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020DC0152); cfr inoltre la Relazione della Commissione con cui viene dato atto dell’intervenuta adozione della Direttiva (https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/policies/justice-and-fundamental-rights/gender-equality/gender-equality-strategy_it);
[5] In particolare, l’art. 1 della Golfo-Mosca ha introdotto:
  • il comma 1-ter all’articolo 147-ter del T.U.F. che impone che lo statuto societario delle società quotate preveda un riparto degli amministratori da eleggere da effettuarsi in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere almeno un terzo (i.e. il 30%) degli amministratori eletti. La legge di bilancio del 2020 ha innalzato al 40% tale soglia;
  • il comma 1-bis all’articolo 147-quater del T.U.F. che estende la quota di cui sopra anche al consiglio di gestione, ove costituito da almeno tre membri;
  • il comma 1-bis all’articolo 148 del T.U.F. che affida all’atto costitutivo della società il compito di disciplinare il riparto dei membri del collegio sindacale secondo i già commentati criteri di tutela del genere meno rappresentato.
[6] L’art. 1, commi 302-304, della l. 160/2019, a decorrere dal 1° gennaio 2020 ha, infatti, nuovamente modificato gli articoli 147-ter, comma 1-ter, 147-quater e 148, comma 1-bis, TUF, articoli estendo l’ambito di applicazione della legge Golfo-Mosca.
[7] Il rapporto 2021 Consob sulla Corporate Governance nelle società quotate italiane ha evidenziato che la presenza femminile negli organi di amministrazione delle società quotate abbia raggiunto il massimo storico osservato sul mercato italiano (41% degli incarichi) proprio per effetto delle norme volte a riservare una quota dell’organo sociale al genere meno rappresentato. A fine 2021, le 131 imprese che hanno applicato la quota di genere dei due quinti contano nei propri consigli di amministrazione in media 4 donne (quasi il 44% del board), mentre nelle restanti società i dati sulla presenza femminile sono solo marginalmente inferiori. Eppure, in linea con quanto osservato negli ultimi anni, rimane limitato il numero di casi in cui le donne ricoprono il ruolo di amministratore delegato o di presidente dell’organo amministrativo, mentre risulta più diffuso il ruolo di consigliere indipendente. Le donne sono titolari di più di un incarico di amministrazione (interlocker) nel 30% dei casi, un dato in flessione rispetto all’anno precedente e al massimo raggiunto nel 2019 (34,9%) (Cfr. https://www.consob.it/web/area-pubblica/abs-rcg/-/asset_publisher/D4UvV7Ug51WY/content/report-corporate-governance-2021/11973).
[8] Il comma 4 in discorso, inserito nel corpo del TUSP ha così sottratto la novella alla limitazione temporale di tre mandati prevista dalla legge Golfo-Mosca; se ne riporta il testo “Nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le amministrazioni assicurano il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d’anno. Qualora la società abbia un organo amministrativo collegiale, lo statuto prevede che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge 12 luglio 2011, n. 120”.
[9] Cfr. l’art. 3, comma 1, della Legge Golfo-Mosca rubricato “Società a controllo pubblico” a norma del quale “Le disposizioni della presente legge si applicano anche alle società, costituite   in   Italia, controllate   da    pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati”.

La Direttiva 2023/970: nuove regole sulla trasparenza retributiva per affrontare il Gender Pay Gap

Per “divario retributivo di genere” (o, in inglese, gender pay gap) si intende la differenza tra i livelli retributivi medi lordi corrisposti da un datore di lavoro ai lavoratori di sesso femminile e a quelli di sesso maschile, espressa in percentuale del livello retributivo medio dei lavoratori di sesso maschile[1]. Abbiamo già avuto l’opportunità di commentare il fenomeno in un articolo del febbraio 2023, ma ora l’approvazione della Direttiva europea 2023/970 e la pubblicazione del report della Banca d’Italia dal titolo “Women, labour markets and economic growth” del giugno 2023  rendono ragione di un (lieto) doveroso aggiornamento.

Come asserito dal considerando numero undici della Direttiva, “è emerso che l’applicazione del principio della parità di retribuzione è ostacolata da una mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi, da una mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali incontrati dalle vittime di discriminazione”.

A seguito di una valutazione approfondita del quadro esistente in materia di gender pay gap e di un processo di consultazione, la Commissione, nella sua comunicazione del 5 marzo 2020 “Un’Unione dell’uguaglianza: la strategia per la parità di genere 2020-2025”, ha annunciato che avrebbe proposto misure vincolanti sulla trasparenza retributiva. La revisione del 2020 delle disposizioni della Direttiva 2006/54/CE (la c.d. Direttiva sulle pari opportunità) ha dimostrato che l’attuazione del principio della parità di retribuzione è ostacolata da problemi procedurali per le vittime di tale discriminazione, sistemi retributivi non trasparenti e una mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore. All’esito dell’analisi, difatti, emergeva come i lavoratori non disponessero delle informazioni necessarie per presentare un ricorso con buone possibilità di successo in materia di parità di retribuzione, né di informazioni sui livelli retributivi dei lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o lavori di pari valore. Una maggiore trasparenza consentirebbe di rivelare pregiudizi e discriminazioni di genere nelle strutture retributive di un’organizzazione o di un’impresa.

Le medesime considerazioni ci vengono sollecitate dal Report della Banca d’Italia, per la quale politiche aziendali orientate alla valorizzazione della diversity possono migliorare la progressione di carriera delle donne e portare alla sensibile diminuzione del gender pay gap. Il report approfondisce la letteratura in materia, suffragandola di proprie analisi, con l’obiettivo di identificare le politiche che possano avere un maggior impatto. Da questa analisi, sulla quale si concentra il secondo capitolo del Report, emergono come particolarmente utili, in primis:

  • Strumenti di organizzazione del lavoro “family friendly”. Una maggiore flessibilità nei luoghi e nei tempi dello svolgimento del lavoro consente una migliore allocazione delle donne tra e nelle imprese;
  • Programmi di diversity training per i manager e mentoring per le lavoratrici più giovani;
  • Politiche di welfare aziendali;
  • Politiche di discriminazione positiva, ossia politiche che prevedano delle disparità di trattamento in favore di chi appartiene a una categoria debole, volte a bilanciare la situazione di pregiudizio subito, sono particolarmente efficaci anche nel breve periodo, soprattutto se applicate anche a livelli intermedi e non solo alle figure apicali, le quali sono risultate più efficaci nel lungo periodo;
  • Strumenti che accrescano la trasparenza sulle scelte aziendali sia in termini di organizzazione che di politiche salariali, fornendo strumenti di conciliazione tra professione e vita privata (quali ad esempio, tra gli altri, la flessibilità in entrata ed in uscita, il lavoro agile o altre forme di lavoro da remoto) che possano ridurre il differenziale salariale e facilitare le progressioni di carriera delle donne.

Proprio su quest’ultimo punto, diversi studi dimostrano come aumentare la trasparenza relativa ai salari ed alle differenze di genere nelle retribuzioni riduce il gender gap. Questo consente:

  • alle donne di migliorare il proprio potere negoziale nelle imprese, ed
  • ai datori di lavoro di prendere coscienza delle differenze insite nei loro schemi di retribuzione.

Proprio in quest’ottica il 10 maggio 2023 è stata pubblicata la Direttiva europea 2023/970, volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva. Prima direttiva nel suo genere, pur presentando alcune criticità, la Direttiva mira ad introdurre diverse innovazioni negli ordinamenti degli Stati membri:

  1. Neutralità di retribuzione

La Direttiva impone che la retribuzione sia basata su criteri neutrali rispetto al genere, sia nel settore privato che in quello pubblico. Lo European Institute for Gender Equity (EIGE) ha definito, in tal senso, questo provvedimento come la “pietra miliare per la parità di genere”: per la prima volta, la discriminazione intersezionale, ossia fondata su una combinazione di molteplici forme di discriminazione o disuguaglianza, qualora il lavoratore appartenga a uno o più gruppi protetti contro la discriminazione fondata sul sesso, da un lato, l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, dall’altro, è stata inclusa nell’ambito di applicazione delle nuove norme.

 

  1. Accesso alle informazioni (c.d. divieto del segreto salariale)

I datori di lavoro dovranno obbligatoriamente fornire ai candidati alle posizioni lavorative informazioni sulla retribuzione iniziale dei posti per cui si avvia la selezione, riportando tali informazioni negli avvisi di ricerca del personale o, comunque, comunicandole prima del colloquio di lavoro. Inoltre, i datori di lavoro non potranno chiedere informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o precedenti rapporti di lavoro.

Una volta assunti, i lavoratori e le lavoratrici potranno chiedere ai datori di lavoro informazioni riguardo i livelli retributivi medi, divisi per sesso, delle categorie di lavoro che svolgono la stessa mansione o mansioni di pari valore.

 

  1. Obbligo di comunicazione per le imprese

Per le imprese con più di 250 dipendenti sarà obbligatorio effettuare comunicazioni annuali ad appositi organismi di monitoraggio in merito al divario retributivo di genere presente all’interno della propria organizzazione. Per le imprese più piccole (quelle con più di 150 dipendenti), invece, l’obbligo di comunicazione avrà cadenza triennale.

Se dai dati comunicati dovesse emergere un divario retributivo superiore al 5%, le imprese dovranno svolgere una valutazione congiunta delle retribuzioni in collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori.

 

  1. Accesso alla giustizia (diritto al risarcimento ed inversione dell’onere della prova)

I lavoratori e le lavoratrici che hanno subito una discriminazione retributiva di genere potranno ottenere un risarcimento e il recupero integrale delle retribuzioni arretrate.

Una novità della Direttiva è che spetterà al datore di lavoro dimostrare davanti al giudice di non aver violato le norme relative alla parità e alla trasparenza retributiva.

Nel caso in cui l’impresa dovesse violare tali norme, le sanzioni dovranno essere efficaci e proporzionate. Tali ammende dovranno essere introdotte dai Paesi membri per i datori di lavoro che non rispettano le regole.

 

La Direttiva 970 troverà applicazione a partire dal 7 giugno 2026 e non è esente da criticità. Nello specifico, in base alle nuove norme, le imprese dell’UE saranno tenute a fornire informazioni sulle retribuzioni e a intervenire unicamente se il divario retributivo di genere supera il 5% e non possa essere motivato sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere. La soglia del 5%, la cui determinazione può apparire arbitraria, lascia fuori dall’ambito di applicazione della Direttiva numerose realtà imprenditoriali.

Secondo il World Economic Forum, a livello mondiale ci vorranno 267,6 anni per raggiungere la parità di genere in termini di partecipazione e opportunità economiche.

Nonostante il dato sconfortante, ci si augura che iniziative come la Direttiva in esame e la Certificazione di genere prevista dal PNRR[2]  permettano, almeno in Italia, un’accelerazione verso un futuro più equo e sempre più prossimo.

questo link, trovate un flyer riassuntivo che delinea i punti principali della Direttiva.

[1] A titolo esemplificativo il divario salariale nel biennio 2020-2021 tra uomini e donne, nelle imprese con più di 50 dipendenti in Lombardia, è del 14,8%, con gli uomini che hanno una retribuzione lorda annua pari a 33.135 euro e le donne di 28.234 euro. Fonte: Indagine sull’occupazione femminile e maschile nelle imprese in Lombardia con più di 50 dipendenti – Rapporto 2022 – Rapporto di ricerca promosso dall’Ufficio della Consigliera di Parità regionale della Lombardia e dalla Direzione Generale Istruzione, Formazione, Lavoro, disponibile al seguente indirizzo: https://www.polis.lombardia.it/wps/wcm/connect/13033778-40bd-4840-9ced-9e39c43e09b8/221351SOC_occupazione_femm_masch_2022_ed2023giugno.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=ROOTWORKSPACE-13033778-40bd-4840-9ced-9e39c43e09b8-oGSRTlT
[2] Per un approfondimento, si rimanda all’articolo pubblicato da Ughi e Nunziante del novembre 2022 dal titolo “il PNRR: un’opportunità per le pari opportunità”, disponibile al seguente indirizzo: https://www.unlaw.it/highlights/il-pnrr-unopportunita-per-le-pari-opportunita/

Antitrust: aggiornate le soglie di fatturato per la notifica preventiva delle operazioni di concentrazione

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha aggiornato le soglie cumulative di fatturato il cui superamento fa scattare l’obbligo di notifica delle operazioni di concentrazione, a decorrere dal 27 marzo 2023, come segue:

  • 532 milioni di euro (anziché 517 milioni di euro) per il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’insieme delle parti acquirenti del controllo e della target, e
  • 32 milioni di euro (anziché 31 milioni di euro) per il fatturato totale realizzato individualmente a livello nazionale da almeno due delle parti interessate dall’operazione tra gli acquirenti e la target.

L’aggiornamento delle soglie di fatturato viene effettuato annualmente dall’AGCM per riflettere l’aumento dell’indice del deflatore dei prezzi del prodotto interno lordo, che per il 2022 è stato pari al 3%, come si evince dai dati Istat.

Le recenti misure incentivanti e di semplificazione all’accesso alla composizione negoziata della crisi

Il Decreto Legge 24 febbraio 2023, n.13 (“Decreto PNRR”), che contiene disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale n.47 e in vigore dal seguente 25 febbraio, ha introdotto alcune novità rilevanti in materia di Composizione Negoziata della Crisi (“CNC”), strumento di gestione della crisi d’impresa introdotto dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118 e successivamente recepito negli artt. 12 e ss. d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (“CCII”).

A oltre un anno dall’introduzione della CNC, un percorso stragiudiziale di gestione precoce della crisi aziendale, il Decreto PNRR risponde alla necessità avvertita nella prassi di semplificarne l’accesso e agevolarne il ricorso da parte delle imprese.

In sintesi, il Decreto PNRR consente oggi:

  • l’accesso a un piano straordinario di rateizzazione del debito tributario: l’art. 38, comma 1, del Decreto modifica l’art. 25-bis, comma 4, CCII in tema di “misure premiali” estendendo fino a 120 rate (a fronte delle 72 previste in precedenza) il termine massimo legale di dilazione del debito in riscossione da parte dell’Agenzia delle Entrante. Restano invariate le condizioni ulteriori di cui al citato art. 25-bis, comma 4, ossia:
    • il requisito della comprovata e grave situazione di difficoltà dell’impresa rappresentata nell’apposita istanza da presentare a cura dell’imprenditore e sottoscritta dall’esperto;
    • l’applicazione alle fattispecie di cui agli artt. 23, comma 1, lett. a) e c), CCII, ossia la conclusione di un contratto idoneo ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni o di un accordo idoneo a consentire l’esenzione dall’azione revocatoria e dai reati di bancarotta;
  • l’accesso, per i creditori dell’imprenditore in crisi, alla procedura di recupero dell’IVA di rivalsa: l’art. 38, comma 2, del Decreto PNRR prevede che, in caso di esito positivo della CNC ai sensi degli artt. 23, comma 1, lett. a) e c), CCII e dalla data della loro pubblicazione presso il Registro Imprese, i creditori possano emettere una nota di variazione ai fini I.V.A. ai sensi dell’articolo 26, comma 3-bis, D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (“Legge I.V.A.”) – da registrare ai sensi dell’art. 25 della medesima Legge I.V.A. – recuperando così l’importo a titolo di I.V.A. esposto in fattura, versato e non incassato, tramite la detrazione d’imposta ammessa ai sensi dell’art. 19 della stessa Legge I.V.A. Si tratta di un’innovazione di notevole impatto considerato che finora, per espressa previsione normativa, tale previsione era limitata alle sole ipotesi delle procedure concorsuali, nonché agli accordi di ristrutturazione e ai piani attestati di risanamento, purché pubblicati presso il Registro Imprese;
  • l’accesso alla CNC tramite una dichiarazione sostitutiva delle certificazioni tributarie e previdenziali: l’art. 38, comma 3, del Decreto PNRR prevede che il requisito della produzione delle certificazioni tributarie e previdenziali di cui all’art. 17, comma 3, lett. e), f) e g), CCII – relativo al certificato unico dei debiti tributari, dei debiti contributivi e per premi assicurativi, oltre alla situazione debitoria complessiva delle somme iscritte a ruolo – possa essere soddisfatto tramite un’autodichiarazione ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, con cui si attesti di averne fatto richiesta almeno dieci giorni prima della presentazione della stessa domanda di CNC. Tale previsione è applicabile alle domande di CNC già presentate e che verranno presentate sulla piattaforma dedicata fino al 31 dicembre 2023.

Contrariamente a quanto emerso nelle prime bozze circolate del Decreto PNRR, resta esclusa l’estensione alla CNC dell’istituto della transazione fiscale e previdenziale di cui all’art. 63 CCII.