1.1 Direttiva Women on boards: finalità, contenuti, ambito di applicazione.
La Direttiva Women on boards (direttiva UE n. 2381/2022), pubblicata in G.U. dell’Unione europea in data 7 dicembre 2022 ed entrata in vigore il 27 dicembre 2022 (“Direttiva”) mira a migliorare l’applicazione del principio di pari opportunità tra donne e uomini nei consigli di amministrazione, stabilendo, secondo trasparenza e meritocrazia, i requisiti per la procedura di selezione dei candidati per la nomina alle posizioni di amministratore.
Nei “Considerando”, infatti, si riconosce che la presenza delle donne nei consigli di amministrazione “migliora il governo societario, in quanto i risultati di squadra e la qualità del processo decisionale sono rafforzati da una mentalità più diversificata e più collettiva, che assorbe una gamma più ampia di prospettive” (cfr. Considerando 16); viene dato, inoltre, rilievo “all’impegno di eliminare il divario retributivo di genere intensificando gli sforzi per affrontare tutte le barriere alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro” (cfr. Considerando 10).
Il Legislatore europeo se, da un lato, stabilisce misure efficaci dirette a raggiungere una rappresentanza più equilibrata di donne e uomini fra gli amministratori delle società quotate, con e senza incarichi esecutivi, dall’altro lato, avendo optato per lo strumento della direttiva anziché del regolamento di diretta applicazione negli ordinamenti interni, non si prefigge di armonizzare nel dettaglio le normative nazionali sul processo di selezione e sui criteri di quantificazione alle posizioni di amministratore ma intende introdurre per le società quotate dei requisiti minimi per la selezione dei candidati per la nomina o per l’elezione degli amministratori sulla base di un processo di selezione trasparente, oggettivo e meritocratico.
L’articolo 2 della Direttiva esclude dal perimetro applicativo della stessa le società quotate del segmento PMI[1] (vale a dire le micro, piccole e medie imprese che occupano meno di 250 dipendenti, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro).
Entro il 30 giugno 2026, tutte le grandi società quotate in mercati regolamentati nell’UE dovranno adottare delle misure per incrementare la presenza delle donne alla loro guida.
Per raggiungere gli obiettivi della Direttiva, l’art. 5 indica due soglie, alternative tra loro, il cui raggiungimento potranno prefiggersi gli Stati membri.
Nella prima ipotesi, gli appartenenti al sesso sottorappresentato dovranno occupare almeno il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi (art. 5.1 lett. a)); nella seconda ipotesi, ovvero nel caso in cui gli Stati membri scelgano, invece, di applicare le nuove norme agli amministratori con e senza incarichi esecutivi, la percentuale scende al 33% di tutte le posizioni da amministratore di una società quotata (art. 5.1 lett. b)).
Gli Stati membri che abbiano scelto la prima ipotesi e, dunque, di applicare la Direttiva ai soli amministratori senza incarichi esecutivi saranno comunque tenuti a fissare per le società quotate obiettivi minimi individuali al fine di migliorare l’equilibrio di genere anche tra gli amministratori con incarichi esecutivi (art. 5.2).
Onde evitare che il genere sotto-rappresentato superi l’altro genere determinando nuovamente un disequilibrio, quale che sia l’ipotesi scelta dagli Stati membri, il genere meno rappresentato non dovrà eccedere una percentuale superiore al 49 %.
L’art. 6 individua i mezzi che gli Stati Membri dovranno richiedere alle società quotate affinché le stesse conseguano gli obiettivi della Direttiva, soffermandosi soprattutto sulla procedura di selezione dei candidati, nonché sulla preparazione degli avvisi di posto vacante, sulla fase di preselezione, sulla fase di valutazione oggettiva dei candidati (per idoneità, competenza e rendimento professionale) e sulla successiva ed eventuale fase di motivazione della scelta.
Gli Stati membri dovranno inoltre dotare i propri sistemi giuridici nazionali di norme che impongano alla società quotata l’onere probatorio di dimostrare la correttezza del processo di selezione adottato per l’ipotesi in cui un candidato del sesso sotto-rappresentato che non sia selezionato adduca elementi in sede giudiziale a sostegno della parità di qualifiche di tale candidato rispetto a quelle del candidato selezionato per la nomina ad amministratore.
Quanto alla cogenza della normativa, la Direttiva impone agli Stati membri di prevedere misure sanzionatorie verso le società quotate che non si adeguino alla nuova normativa (segnatamente per le violazioni degli artt. 5, paragrafo 2, e articolo 6 e 7 della Direttiva) dando termine entro il 28 dicembre 2024 affinché le norme e le misure sanzionatorie adottate dai singoli Stati membri siano comunicati alla Commissione europea.
Il termine di cui sopra è in linea con quello di recepimento della Direttiva che, infatti, impone agli Stati membri di adottare e pubblicare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro il 28 dicembre 2024 (art. 11); mentre le società quotate destinatarie della nuova disciplina dovranno conseguire gli obiettivi individuati dalla stessa – sulla base delle legislazioni che saranno via via adottate dai singoli Stati membri – entro il 30 giugno 2026 (art. 5).
Il percorso per giungere all’approvazione della Direttiva è stato lungo e tormentato.
Preso atto che i consigli delle società europee erano caratterizzati da persistenti disparità di genere e che nel 2012, nei consigli di amministrazione delle maggiori società quotate nelle borse europee, la presenza delle donne non superava la misura pari al 13,7% (15% nel caso di incarichi non esecutivi)[2], nel novembre 2012 la Commissione Europea ha presentato la proposta di Direttiva, “COM (2012) 614 final”, riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori senza incarichi esecutivi delle società quotate in Borsa e relative misure (“Proposta di Direttiva”).
La Proposta di Direttiva si inseriva in un contesto che aveva già visto le istituzioni europee esprimersi a vario livello sui temi della promozione della parità di genere e sulle pari opportunità (anche retributive) fra donne e uomini, nonché sull’importante crescita economica che sarebbe derivata dalla mobilitazione di tutte le risorse umane, soprattutto delle donne altamente qualificate.
In seno alle stesse istituzioni europee si è, così, avviata già dal 2010 una prima consultazione sulla possibilità che l’Unione Europea assumesse provvedimenti diretti ad imporre quote di genere nell’ambito degli organi di governo delle imprese private, sollecitando il dialogo degli Stati membri e delle parti sociali in merito all’opportunità di introdurre una disciplina specifica, all’obbligatorietà o meno della stessa, all’ambito applicativo ed all’entità della quota da riservare al genere meno rappresentato (dal 20 % al 60 %).
In particolare, la Commissione europea ha ribadito il proprio sostegno a una maggiore presenza delle donne nelle posizioni di responsabilità, con la Carta per le donne del 2010[3], in cui viene riconosciuto “l’impegno a perseguire l’obiettivo di una più equa rappresentazione di donne e uomini nelle posizioni di potere nella vita pubblica e nell’economia” grazie ad azioni positive “comprese le misure di incentivi dell’Unione, per promuovere un incremento della quota femminile in posizioni di responsabilità”, impegno che è stato rinnovato anche nel documento programmatico “Strategia della Commissione europea per la parità tra donne e uomini 2010-2015”[4] adottato dalla Commissione il 21 settembre 2010.
Dal canto suo, anche il Consiglio, nel Patto europeo per la parità di genere 2011-2020 adottato il 7 marzo 2011, aveva riconosciuto che la centralità delle politiche volte a promuovere la parità di genere sotto i profili della crescita economica, della prosperità e della competitività, sollecitando quindi azioni di promozione della pari partecipazione di donne e uomini ai processi decisionali a tutti i livelli e in tutti i settori, allo scopo di utilizzare pienamente tutti i talenti disponibili.
Da ultimo, il Parlamento europeo ha ripetutamente esortato le imprese e gli Stati membri ad incrementare la rappresentanza delle donne negli organi decisionali e ha invitato la Commissione a proporre per via legislativa delle quote per raggiungere la soglia fondamentale del 30%.
Pur continuando a più riprese ad essere dichiarata come una delle priorità dell’agenda europea la Proposta di Direttiva è rimasta incagliata per alcuni anni e fino a che – a distanza di 10 anni, nel novembre del 2022, è stato approvato il testo della Direttiva.
In questo quadro, segnato dai ripensamenti del legislatore europeo e da profonde disuguaglianze tra le legislazioni nazionali degli stati membri dell’Unione Europea, l’Italia si colloca tra i paesi che hanno predisposto, volontariamente e in via autonoma, una propria regolamentazione domestica per perseguire le politiche di parità di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società con azioni quotate in borsa e delle società a controllo pubblico. Il legislatore italiano è, infatti, intervenuto con la legge 12 luglio 2011, n. 120 c.d. Legge Golfo-Mosca (“Legge Golfo-Mosca”), opportunamente implementata – quanto a contenuto e durata – dal Decreto Bilancio 2020 (legge n. 160/2019) che ne ha potenziato l’impatto (v. infra § 3.1).
Con l’introduzione di regole destinate a incidere sui meccanismi di reclutamento dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate in mercati regolamentati e delle società a controllo pubblico, la Legge Golfo-Mosca rappresenta a tutt’oggi un caso esemplare di regolazione della rappresentanza di genere in ambito economico.
La direttiva “Women on Boards”, tesa a stabilire una strategia comune per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, vuole, dunque, fare un passo avanti nel garantire condizioni uniformi in termini di corporate governance per le società quotate europee, andando così a integrare gli sforzi già compiuti dai singoli legislatori nazionali, in primis quello italiano.
3.1 L’Italia precorritrice dell’UE: la c.d. Legge Golfo-Mosca (legge 12 luglio 2011, n. 120).
Come detto, in Italia l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate e delle società a controllo pubblico è obbligatorio dal 2011.
La stessa Commissione europea, infatti, all’indomani dell’approvazione della Direttiva ha citato proprio la legge Golfo-Mosca come legge da seguire in tema di parità di genere aziendale in Europa.
È un dato di rilevo perché l’Italia, per la prima volta rispetto ad una normativa di fonte europea, ha anticipato i tempi prevedendo prima del Legislatore europeo l’obbligo delle quote negli organi di governance delle società quotate e a partecipazione pubblica.
La Legge Golfo-Mosca apportando significative modifiche agli articoli 147 ter, 147 quater e 148 del T.U. n. 58 del 1998 ha prescritto, nella sua prima formulazione, quote minime del genere sotto-rappresentato pari a un terzo dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società per azioni quotate e a partecipazione statale[5], da applicarsi dalla data di entrata in vigore della legge per tre mandati consecutivi di detti organi.
La portata della legge è stata poi ampliata, con riferimento alle sole società quotate, dalla legge di bilancio 2020, n. 160 del 27 dicembre 2019[6] che ha innalzato la quota riservata al genere sottorappresentato (da un terzo come prevedeva originariamente la norma) a due quinti dei componenti e ha esteso l’operatività delle nuove previsioni a ulteriori sei mandati, a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e controllo successivo al 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge.
Tale legge, che ha già attraversato tre mandati dei consigli di amministrazione delle società destinatarie, in base all’ultimo rapporto Consob ha prodotto un risultato di presenze femminili nei consigli di amministrazione delle quotate pari al 42,8%[7].
Le norme dettate per le società a controllo pubblico, a loro volta, sono state arricchite dal d.lgs. 175 del 2016, Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica (T. U.S.P.) che ha introdotto all’art. 11, 4° comma alcune disposizioni che rafforzano, estendendone la durata, quelle originariamente dettate dalla legge n. 120 del 2011[8].
3.2 Confronto ed elementi di divergenza della Direttiva Women on boards rispetto alla Legge Golfo-Mosca, come successivamente modificata.
Quali che saranno le scelte del nostro Legislatore nazionale al momento del recepimento della Direttiva, va da sé che queste non potranno prescindere da un confronto rispetto alla normativa nazione attualmente in vigore.
Elemento innovativo che sembra aver guidato il legislatore europeo rispetto a quello nazionale è l’aspetto meritocratico, che si rinviene all’articolo 6 della Direttiva nella previsione sulle misure integrate di salvaguardia in grado di garantire che non vi sia alcuna promozione automatica e incondizionata del sesso sottorappresentato, aspetto non affrontate delle disposizioni di cui agli articoli 147 ter, 147 quater e 148 del T.U.F. né tantomeno dall’art. 11, comma 4° del T.U.S.P che si limitano ad imporre le quote da garantire senza dettare dei principi cardine di trasparenza e meritocratici per il loro raggiungimento.
Altro elemento di divergenza si rinviene nello strumento adottato per l’attuazione degli obiettivi di pari rappresentatività tra i generi.
La Legge Golfo-Mosca prevede, infatti, che le società destinatarie della disciplina debbano ricorrere alla revisione dei propri statuti con previsioni che impongano il rispetto delle quote di genere nella composizione dei propri organi di amministrazione e controllo. Come abbiamo visto, la Direttiva, invece, al suo articolo 6, stabilisce che le misure debbano incidere sul meccanismo di reclutamento senza specificatamente indicare la revisione statutaria come strumento necessario per l’attuazione della soglia.
Ciò detto, altro rilevante elemento di divergenza della Direttiva rispetto alla Legge Golfo-Mosca consiste nell’ambito di applicazione più ristretto della prima rispetto alla seconda.
In aggiunta, a differenza della norma nazionale, la Direttiva non si applica infatti alle imprese pubbliche, ossia alle imprese nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare direttamente o indirettamente un’influenza dominante[9], né tantomeno, come abbiamo visto, alle PMI (art. 2 della Direttiva).
Altra differenza si registra rispetto all’ambito di applicazione soggettivo delle soglie.
Ai sensi della Direttiva, entro il 30 giugno 2026, soltanto le società quotate di grandi dimensioni, dovranno conseguire uno degli obiettivi ivi previsti.
Secondo il primo obiettivo, gli appartenenti al sesso sotto-rappresentato dovranno occupare almeno il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi; nel caso però in cui gli Stati membri scelgano di applicare le nuove norme agli amministratori con e senza incarichi esecutivi, l’obiettivo scende al 33% di tutte le posizioni da amministratore di una società quotata.
La legge Golfo-Mosca non prevede la possibilità che la quota di genere sia applicata ai soli componenti degli organi di controllo, né tantomeno una mitigazione della percentuale da raggiungere, imponendo che gli organi sia di amministrazione sia di controllo delle società quotate debbano garantire al genere sotto-rappresentato la quota del 40% di cariche.
Va, tuttavia, segnalato il carattere temporale delle disposizioni della Legge Golfo-Mosca.
Nella convinzione che allo scadere dei vincoli legislativi le società, dopo averne sperimentato i benefici, continuino spontaneamente a mantenere una composizione equilibrata e diversificata dei propri organi, l’operatività della legge è stata prevista soltanto per un limitato numero di mandati (come visto, tre nella legge Golfo-Mosca e sei nella legge di bilancio 2020), divergenza significativa rispetto alla Direttiva che, invece, non prevede una scadenza delle misure da adottare. Da qui eventuali effetti in sede di recepimento della Direttiva nel nostro ordinamento nazionale.
A questo proposito, va infine segnalato che la Direttiva ammette inoltre che gli Stati membri che abbiano già autonomamente adottato una disciplina in linea con gli obiettivi posti dal Legislatore europeo possano sospendere l’applicazione della stessa nei propri ordinamenti interni.
L’art. 12 della Direttiva prevede, infatti, che gli Stati membri possano sospendere verso le proprie società quotate la disciplina di cui all’art. 6 (che stabilisce gli strumenti cui devono dotarsi le società quotate per conseguire l’equilibrio di genere nei propri consigli) e, se del caso, quella all’articolo 5, paragrafo 2 (che determina le soglie il cui raggiungimento costituisce l’obiettivo della Direttiva), a condizione che alla data del 27 dicembre 2022 (e dunque, in via autonoma, già prima del termine di recepimento della Direttiva) le società quotate destinatarie delle misure soddisfino le condizioni seguenti:
Come si è detto, grazie alla Legge Golfo-Mosca, l’Italia è già in linea con gli obiettivi della Direttiva, e le suddette soglie di cui alla lett. a) sono già state raggiunte dal nostro paese e, inoltre, sembra già realizzata anche la condizione di cui alla lett. b) per cui, rispetto all’Italia la Direttiva potrà incidere nella legislazione interna ma ci dovrà domandare quale sarà la scelta del nostro Legislatore nazionale rispetto alla facoltà, prevista all’articolo 12, di sospendere l’applicazione della disciplina agli articoli 5 e 6, fermo restando che il comma 2 dell’articolo 12 stabilisce uno sbarramento del 39% che, alla luce delle maggiori percentuali raggiunte, potrebbe privare il nostro paese dalla possibilità di dare attuazione al meccanismo di sospensione.
§§
In conclusione, al di là del pregio dei significativi sforzi del nostro Legislatore nazionale, che ha alimentato un cambio culturale che finalmente sta producendo i propri frutti, innovando in materia ancor prima del Legislatore europeo e – per certi aspetti, quali ad esempio l’ambito più di applicazione – con più coraggio, l’approvazione della Direttiva rafforza gli sforzi già compiuti e gli promuove, nel solco di percorso che sembra essere ancora al suo avvio.
Tale riflessione è confermata da una verifica dei numeri dei consigli di amministrazione delle società non quotate, che non essendo destinatari della normativa, ancora, oggi, non vedono un decollo delle presenze femminili.
In conformità alla strategia della parità di genere dell’Unione che si dovrà realizzare entro il 2026, si scorge però un primo importante passo verso la consapevolezza di considerare, oggi, sempre di più, l’investimento nella parità di genere per la corporate governance come un driver importante delle imprese, ciò anche nel contesto della più ampia tendenza a ricercare negli ESG e nei principi di CSR degli alleati nella crescita delle imprese.